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lunedì 26 maggio 2014

In caso di rimborso Iva versata per errore dal contribuente, si applica il termine di prescrizione decennale dell’indebito oggettivo, art. 2033 c.c. (C.T.R. della Lombardia, n° 83/31/13)





In caso di rimborso Iva versata per errore dal contribuente, si applica il termine di prescrizione decennale dell’indebito oggettivo, art. 2033 c.c. (C.T.R. della Lombardia, n° 83/31/13)

In materia di “tempistica” prescrizionale ai sensi del rimborso Iva, la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia – con la sentenza n° 83/31/13 depositata il 13 giugno 2013 – ha stabilito che è applicabile il termine decennale, ai sensi dell’indebito oggettivo, art. 2033 c.c. e non quello biennale (a decorrere dal versamento dell’imposta non dovuta all’Erario), ai sensi dell’art. 21, comma 2, D. Lgs. 546/92.

I fatti del processo

Il processo in questione traeva origine da un errore (ai fini del versamento Iva) commesso dal contribuente italiano, il quale avendo eseguito lavori murali in un immobile ubicato nel territorio francese, provvedeva a corrispondere la relativa imposta a favore del fisco italiano; tuttavia, in seguito, l’Erario francese richiedeva legittimamente l’assolvimento dell’Iva per i servizi prestati dal soggetto, di conseguenza quest’ultimo si vedeva costretto a versare “nuovamente” il medesimo tributo alla Francia.

Per effetto di questa circostanza, il contribuente provvedeva a chiedere il rimborso dell’Iva versata “in eccedenza” a favore dell’Amministrazione finanziaria italiana (per gli anni di imposta 2007 e 2008), la quale tuttavia decideva per il diniego, rilevando la tardività della domanda, atteso che anche per il rimborso Iva trova operatività il regime biennale previsto dall’art. 21, comma 2, D. Lgs. 546/92.

La sentenza dei giudici milanesi; termine prescrizionale per il rimborso della maggiore Iva corrisposta (art. 2946 c.c.), ipotesi di indebito oggettivo (art. 2033 c.c.)

In definitiva, la Commissione Tributaria competente confermava quindi la precedente decisione adottata dai giudici di primo grado, statuendo che in tema di rimborso Iva è pacificamente vigente il termine decennale previsto dall’art. 2946 c.c.[1]: i diritti sono sempre esercitabili nel termine di dieci anni, salvo previsioni diverse.

A ben vedere, secondo i giudici milanesi, è del tutto infondato ritenere valido il termine biennale per presentare l’istanza di rimborso Iva versata in eccedenza, alla luce del vuoto normativo in materia: non esiste alcuna disposizione nella legge Iva che stabilisca i tempi per il rimborso, dunque prevale il termine decennale[2].



In realtà non è la prima volta che la giurisprudenza propende verso un orientamento favorevole al contribuente[3] ed in linea con le interpretazioni comunitarie[4]; in particolare lo spirito della citata decisione è che l’art. 2946 c.c. prevede che tutti i diritti, compresi anche quelli di credito fiscale, si prescrivano esclusivamente con il decorso di dieci anni.

In particolare, il diritto al rimborso pro contribuente trova la propria ragion d’essere giuridica nell’istituto civilistico (che in questa fattispecie ha anche riflessi fiscali) dell’indebito oggettivo (art. 2033 c.c.[5]).

La norma in esame prevede difatti che “chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato”.

In altre parole, il soggetto (contribuente) - che ha pagato indebitamente una somma ad un altro (Amministrazione finanziaria) - ha diritto di ottenere la restituzione di ciò che ha corrisposto: nasce così, in capo a chi ha ricevuto il pagamento, un’obbligazione di restituzione.

Si tratta di un incasso di somme (corrisposte per un mero errore scusabile del contribuente) che l’Agenzia delle Entrate tratteneva indebitamente: ciò rappresenta un vizio sanabile, poiché l’ordinamento garantisce al soggetto la possibilità di ottenere il rimborso di dette somme.

Di Federico Marrucci

Avvocato tributarista di Lucca e Pisa (presso Studio Legale e Tributario Etruria)


per maggiori informazioni www.studioetruria.com







[1] L’art. 2946 c.c., afferma che, in generale “i diritti si estinguono per prescrizione ordinaria” (ossia in 10 anni), “salvi i casi in cui la legge dispone diversamente”;

[2] Proprio su siffatte conclusioni è approdata la Corte di Cassazione con la sentenza n° 9816 del 14 giugno 2012, in ordine alla quale ha statuito che le regole civilistiche sulla prescrizione si applicano anche ai rimborsi Iva: “è tardiva la nota con cui il contribuente sollecita l’Amministrazione al pagamento delle somme, se è inviata dopo 10 anni dalla presentazione della dichiarazione stessa”;

[3] Cfr. Cass., n° 6538/2004 e n° 27948/2009; a ciò si aggiunga un’ulteriore valutazione, supportata da una sentenza della S.C. (n° 7721 del 27 marzo 2013), in forza di essa è stato deciso che anche in caso di cessazione dell’attività, il rimborso del credito Iva, può essere richiesto dal contribuente con istanza da presentare entro il termine ordinario di prescrzione decennale;

[4] Le regole processuali dell’ordinamento nazionale non possono vanificare il diritto del soggetto passivo di ottenere dal Fisco il rimborso dell’Iva, soprattutto nei casi in cui il rimborso dell’imposta non risulti impossibile o eccessivamente difficile, nel qual caso gli Stati membri dell’Unione Europea sono tenuti ad adottare gli strumenti necessari per garantire il rispetto del principio di effettività (C-427/10 del 15.12.2011);


[5] Per maggior chiarezza espositiva, in materia proprio di rimborso Iva versata in eccedenza e trattenuta dal Fisco, una recente sentenza della Corte di Cassazione, n° 20526/13 ha ampliato lo scenario favorevole al contribuente, prevedendo anche la possibilità di avviare un procedimento “risarcitorio dell’amministrazione per condotta illecita nei confronti del contribuente ovvero indennitario per un indebito arricchimento” (art. 2041 c.c.), laddove il rigetto della richiesta di rimborso rappresenti una ingiustizia giuridica e fiscale. Brevemente, l’art. 2041 c.c., il quale disciplina l’azione generale di arricchimento, prevede: “chi, senza giusta causa, si è arricchito a danno di un’altra persona è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale”; anche in tale ipotesi, il termine prescrizionale è fissate in dieci anni.

In definitiva, i giudici della Suprema Corte hanno quindi statuito che in materia di c.d. rimborso di imposte corrisposte in eccedenza, sono pacificamente applicabili (entro 10 anni dal pagamento non dovuto) sia l’istituto civilistico dell’indebito oggettivo (art. 2033 c.c.), sia quello dell’arricchimento senza giusta causa (art. 2041 c.c.): in tal modo, l’ordinamento assicura e garantisce al contribuente, “colpevole” di essere stato inaspettatamente generoso a favore dell’Erario, la concessione di una sanatoria derivante da un pagamento tributario non richiesto (e trattenuto indebitamente nelle casse statali);

mercoledì 14 maggio 2014

E’ illegittima la tassazione ai fini Iva della Tia ad opera dell’Ente di gestione del servizio; il cittadino ha diritto al rimborso, oltre interessi, nei termini della prescrizione decennale (Giudice di Pace di Lucca, n° 789 depositata in data 31 ottobre 2013)



E’ illegittima la tassazione ai fini Iva della Tia ad opera dell’Ente di gestione del servizio; il cittadino ha diritto al rimborso, oltre interessi, nei termini della prescrizione decennale (Giudice di Pace di Lucca, n° 789 depositata in data 31 ottobre 2013)

Con la recente sentenza n° 789/13, il Giudice di Pace di Lucca - in tema di rimborso a titolo di Iva indebitamente riscossa per la Tia - ha stabilito che l’Ente di gestione dello “smaltimento rifiuti” non può assoggettare ad Iva detto servizio in quanto “la Tia è un tributo e non una vera tariffa”.

I fatti del processo e la decisione

L’attore, nella propria tesi difensiva, sosteneva (producendo le relative fatture emesse dalla società di servizio) di aver corrisposto all’Ente competente, a titolo di Iva applicata alla Tia[1] (c.d. tassa sullo smaltimento dei rifiuti) dal 2003 al 2011, la somma di €. 290,10.

A supporto di tale richiesta giudiziale, veniva richiamato l’orientamento giurisprudenziale espresso (Corte Costituzionale, n° 238/09 e Corte di Cassazione, n° 3756/12) in forza del quale era stato statuito che la Tia ha natura tributaria (rectius: entrata tributaria) e pertanto è “estranea all'ambito di applicazione dell'Iva ai sensi del D.P.R., n° 633 del 1972”.

In altri termini l'Iva, come qualsiasi altra imposta deve colpire inderogabilmente elementi costituenti una qualche capacità contributiva (art. 53 Cost.) ai danni del soggetto passivo, ossia il contribuente, quindi detto presupposto si manifesta quando un soggetto acquisisce beni o servizi versando un corrispettivo, non quando paga un'imposta (appunto la Tia, nel caso in esame).

Orbene, l'art. 3 del D.P.R. 633/72, puntualizza che sono soggette ad Iva solo le prestazioni di servizi verso corrispettivo e non quelle finanziate mediante imposte (Cass., n° 3294/12).

In breve, è inammissibile (da un punto di vista fiscale), nonché tecnicamente inaccettabile, prosegue l’attore nella propria “ricostruzione”, applicare un “tributo su un tributo” (l'Iva sulla Tia), pertanto l'Iva richiesta e riscossa dall’Ente di gestione del servizio afferente “lo smaltimento rifiuti” si configura come un'ipotesi di indebito arricchimento (Cass, n° 4703/1990).

In definitiva, come chiarito dalla citata decisione della Consulta, l'indebito pagamento dell'Iva sulle fatture emesse dall’Ente di gestione, rappresenta una “rilevata inesistenza di un nesso diretto tra il servizio e l'entità del prelievo – quest'ultima commisurata a mere presunzioni forfetarie di producibilità dei rifiuti interni e al costo complessivo dello smaltimento anche dei rifiuti esterni – porta ad escludere la sussistenza del rapporto sinallagmatico posta alla base dell'assoggettamento ad I.v.a. ai sensi degli artt. 3 e 4 del D.P.R. 633/72 e caratterizzato dal pagamento di un corrispettivo per la prestazioni di servizi”.

Ebbene, nel nostro ordinamento non sussiste alcuna legge che assoggetti ad Iva le prestazioni di raccolta/smaltimento rifiuti (tale servizio è un vero e proprio tributo), pertanto l'attore ha ritenuto del tutto legittimo esercitare il diritto al rimborso dell’Iva pagata, oltre rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat di anno in anno vigenti, nonché interessi moratori[2].

La convenuta eccepiva il difetto di giurisdizione del Giudice Ordinario (in favore della Commissione Tributaria), l’incompetenza del Giudice adito e, in ogni caso, l’irritualità, la tardività, nonché l’infondatezza della richiesta di rimborso.

Il Giudice di Pace di Lucca, disattendendo in via preliminare le questioni riguardanti la competenza e la giurisdizione, accoglieva quindi le domande avanzate dall’attore, osservando che la Tia, avendo la natura di “tributo” e non di servizio, non può essere assoggettata al regime Iva (aliquota al 10%), quindi il cittadino/attore ha diritto al rimborso di quanto illegittimamente versato nel termine prescrizionale di dieci anni (art. 2946 c.c.) a decorrere dal primo pagamento effettuato.

Di Federico Marrucci

Avvocato Tributarista in Lucca e Pisa (c/o Studio Legale e Tributario Etruria)

per maggiori informazioni www.studioetruria.com





[1] Introdotta con il D. Lgs. n° 22/1997, ossia il c.d. Decreto Ronchi;
[2] Vedi Giudice di Pace di Genova con la decisione n° 3982/2012;

martedì 13 maggio 2014

Il contribuente ha diritto a chiedere all’Ente delle Riscossione (Equitalia) la copia integrale della cartella esattoriale entro 5 anni dalla notifica dei provvedimenti (Consiglio di Stato, Sezione IV, n° 4821 del 26 settembre 2013)



Il contribuente ha diritto a chiedere all’Ente delle Riscossione (Equitalia) la copia integrale della cartella esattoriale entro 5 anni dalla notifica dei provvedimenti (Consiglio di Stato, Sezione IV, n° 4821 del 26 settembre 2013)
Il Consiglio di Stato, con una interessante pronuncia in tema del c.d. diritto di accesso del cittadino alla disamina degli atti amministrativi, ha stabilito che deve essere riconosciuta tale possibilità al contribuente, laddove quest’ultimo “chieda ad Equitalia di visionare la copia della cartella di pagamento […] in quanto presupposto per eventuali azioni espropriative e/o cautelari. Ai sensi dell’art. 26 del D.P.R. n° 602/1973, l’Agente della Riscossione ha l’obbligo di conservare, per cinque anni, la copia della cartella di pagamento notificata al contribuente, e di esibirla al contribuente che ne faccia richiesta”.
I fatti del processo
Il contenzioso amministrativo traeva origine dalla domanda di annullamento del contribuente avverso il silenzio - rigetto sulla istanza di accesso ai documenti inoltrata alla società Equitalia Sud S.p.a. (già Equitalia Etr S.p.a.), al fine di ottenere copia delle cartelle di pagamento, nonché delle relative relate di notifica.
In effetti, il medesimo ricorrente lamentava la mancata notificazione dei provvedimenti impositivi in parola; tuttavia controparte eccepiva l’inesistenza del diritto di accesso, trattandosi di un procedimento tributario.
A ben vedere, il contribuente – nella propria tesi difensiva – osservava che la consegna del mero c.d. estratto di ruolo, ovvero sia il report riepilogativo concernente la situazione debitoria del cittadino nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, non fosse sufficiente a considerare assolto l’obbligo di accesso in favore dell’istante, dovendosi ritenere necessaria la integrale produzione di ciascuna cartella esattoriale.
La decisione del Consiglio di Stato: diritto di tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.) e principio di “razionalità”
Ebbene, i giudici amministrativi hanno pertanto accolto le doglianze sollevate dal contribuente, valutando come fondata l’istanza di accesso avanzata, giacché, l’art. 26, comma 4, D.P.R. n° 602/1973 stabilisce chiaramente che “il concessionario deve conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o l’avviso di ricevimento ed ha l’obbligo di farne esibizione su richiesta del contribuente o dell’amministrazione”.
In particolare, la menzionata norma introduce due differenti (ma connessi tra loro) obblighi per la società concessionaria: a) la conservazione della copia dei provvedimenti esattoriali per cinque anni e b) l’esibizione degli stessi su richiesta degli interessati (cittadino o lo stesso Stato).
Dunque, dal momento che la cartella impositiva “costituisce presupposto della iscrizione di ipoteca immobiliare, la richiesta di accesso, ai sensi degli artt. 22 ss., L. n° 241 del 1990, alla cartella è strumentale alla tutela dei diritti del contribuente”.
In definitiva, tale atto amministrativo rappresenta – come noto – anche condizione per promuovere le procedure esecutive, per cui è di palmare evidenza che disconoscere al cittadino il diritto di ritirare copia integrale del provvedimento che lo riguarda direttamente, significherebbe “introdurre una limitazione all’esercizio di difesa in giudizio”, nonché “rendere estremamente difficoltosa la tutela giurisdizionale del contribuente che dovrebbe impegnarsi in una defatigante ricerca della copia delle cartelle”.
Concludendo, la limitazione prospettata da Equitalia, secondo quanto enunciato dai giudici nel caso in parola, colliderebbe con il principio costituzionale che garantisce la tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.) “e con il principio, di rango costituzionale, di razionalità”.
Di Federico Marrucci
Avvocato Tributarista in Lucca e Pisa (c/o Studio Legale e Tributario Etruria)

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